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libro primo. 49


bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine ajutati: il che non ardirei dir nella latina.

XXXVII. Allor messer Federico, Perchè volete voi, disse, che più s’estimi la consuetudine nella volgare che nella latina? — Anzi, dell’una e dell’altra, rispose il Conte, estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perchè quegli uomini, ai quali la lingua latina era così propria come or è a noi la volgare, non sono più al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello che essi aveano imparato dalla consuetudine; nè altro vuol dir il parlar antico, che la consuetudine antica di parlare: e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico non per altro, che per voler più presto parlare come si parlava, che come si parla. — Dunque, rispose messer Federico, gli antichi non imitavano? — Credo, disse il Conte, che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli saria passato inanzi; nè Cicerone a Crasso, nè Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero è tanto antico, che da molti si crede che egli così sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor è d’eccellenza di dire: e chi vorrete voi che egli imitasse? — Un altro, rispose messer Federico, più antico di lui, del quale non avemo notizia per la troppa antiquità. — Chi direte adunque, disse il Conte, che imitasse il Petrarca e ’l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si può dir, che son stati al mondo? — Io nol so, rispose messer Federico; ma ereder si può che essi ancor avessero l’animo indrizzato alla imitazione, benchè noi non sappiam di cui.— Rispose il Conte: Creder si può che que’ che erano imitati fossero migliori che que’ che imitavano; e troppo maraviglia saria che così presto il lor nome e la fama, se erano buoni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred’io che fosse l’ingegno, ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che sì debba maravigliare, perchè quasi sempre per diverse vie si può tendere alla sommità d’ogni eccellenza. Nè è natura alcuna che non abbia in sè molte cose della medesima sorte, dissimili l’una dall’altra, le quali però son tra sè di egual laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son