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Pagina:Catullo e Lesbia.djvu/105

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questioni. 99

allontanandosi a poco a poco da quella donna, ch’egli temeva, dopo l’esperienze avute, di dovere lui dì o l’altro abbandonare irrevocabilmente; e certo e più di tutto perchè la morte del suo caro fratello avea gettata nel lutto la sua famiglia, nel seno della quale lo chiamava il comune dolore, s’era presa la libertà di andare a Verona, dove, d’altronde, non contava di star lungamente (v. 32 e segg). Manlio gli domanda un carme che lo conforti, dei libri che lo distraggano; e il poeta, non senza mostrarglisi grato di tanta fiducia (v. 9), si addolora di non poterlo far contento come vorrebbe, giacché la sventura ha colpito parimente il suo capo. Vi fu un tempo, egli scrive, ch’io non pensava ad altro che a schiccherar versi: multa satis lusi (v. le annotazioni): la morte del fratello mi tolse ogni dolce ispirazione, ogni contentezza, ogni felicità (v. 25 e 26); e se io ho il coraggio di starmi qui in Verona,

Id, Manli, non est turpe, magis miserum est

Questo è il verso, a cui legano l’asino i signori critici, non molto dissimili di quel contadino che lo legava ad un fiasco. Se Catullo, essi dicono, scrive esser degno di compassione, ciò vuol dire, ch’egli ha dato a Lesbia le pere; bisogna convenire dunque, che la prima parte dell’epistola fu scritta quando gli amanti non se la dicevano più. Piano a’mai passi, miei buoni signori. Prima di tutto, non essendo precisato in qual mese del 58 il poeta si recasse a Verona, io ho piena libertà di credere che ci sia andato subito dopo la morte del fratello, pochi mesi avanti il distacco finale da Lesbia; e per quali ragioni l’ho detto più su. In secondo luogo,