Pagina:Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu/109

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le prime relazioni con p. giordani 81

dio gli esercizi del corpo. La lettura della Cantica lo aveva confermato nei suoi timori. Appena l’ebbe letta, gli scrisse: «Io non sono giudice di poesie, se non come quel ciabattino giudicava le pitture. Nondimeno come uno del popolo dirolle, che questa cantica non mi pare certamente da bruciare; e né anche però la stamperei così subito. Credo che V. S. rileggendola dopo alquanti mesi vi troverà forse molti segni di felicissimo ingegno; e forse anche qualche lunghezza, qualche durezza, qualche oscurità.»1 Ma, a parte i pregi e i difetti artistici del lavoro, ciò che gli fece maggiore impressione, e impressione dolorosa, fu l’argomento. «Mi ha molto contristato, diceva, un timore che la sua delicata complessione abbia patito dal soverchio delle fatiche, e le dia quelle tante malinconie.... È da filosofo non amare la vita e non temere la morte più del giusto: ma fissarsi nel pensier continuo della morte cotanto spazio quanto ne vuole il componimento di quella cantica, non mi pare cosa da giovinetto di dieciotto anni, al quale la natura consente di viverne bene ancora sessanta, e l’ingegno promette di empierli di studi gloriosi. Pensi dunque, io la supplico, a rallegrarsi e invigorirsi: e invece di allettare i pensieri malinconici, li sfugga.»2 Il Giordani aveva indovinato, come del resto era facile. La composizione della Cantica non aveva fatto che accrescere la malinconia del poeta; nel quale la paura di morire raggiunse il colmo ai primi del 1817.

In altre lettere posteriori del Giordani al Leopardi le raccomandazioni di curare la salute rinforzano e prendono il tuono di amichevole ma severo rimprovero. Per carità, o ubbiditemi, o non mi scrivete mai più.... se vi ostinate a volervi ammazzare o incadaverire, fatemi la carità, scordatevi di me, non

  1. Epistolario, vol. III, pag. 89.
  2. Idem, pag. cit.