Pagina:Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu/116

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88 capitolo iv.

posta nel luglio, il Leopardi non si sa che scrivesse altro che le poche cose già accennate, cioè i sonetti satirici in persona di Ser Pecora fiorentino beccaio, la traduzione in versi di un breve frammento della Teogonia d’Esiodo (la Titanomachia), con innanzi un discorso critico, il quale è tutto un elogio della poesia esiodea, e l’elegia Il primo amore.

I sonetti, composti, come l’autore stesso dice, a somiglianza dei Mattaccini del Caro, erano vòlti a castigare la insolenza petulante di Guglielmo Manzi, bibliotecario della Barberiniana di Roma, il quale aveva risposto un sacco di villanie ad una critica urbanissima del Giordani nella Biblioteca italiana. L’autore voleva pubblicarli subito nello Spettatore, e li mandò perciò allo Stella, il quale, sia per non aver brighe col Manzi, sia per altre ragioni, non li stampò. Quei sonetti furono poi pubblicati dal Leopardi stesso nel 1826,1 ma non hanno importanza se non quanto servono a dimostrare la grande facilità ch’egli aveva da giovane d’imitare i vari stili e le varie forme e maniere letterarie; facilità della quale parla egli stesso nei Pensieri, chiamandola facilità di assuefazione. «Con una sola lettura, scrive, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomici subito l’immaginazione a rifarlo ec. Così leggendo un libro in una lingua forestiera m’assuefaceva subito dentro quella giornata a parlare anche meco stesso e senza avvedermene in quella lingua.»2

La Titanomachia ha presso a poco i pregi e i difetti delle altre traduzioni. L’autore attribuiva più importanza al discorso che alla traduzione; la quale è, come tutti gli altri lavori dello stesso genere e di quel tempo, importante sopratutto come esercitazione di studio.

  1. Nel volumetto Versi del conte Giacomo Leopardi; Bologna, 1826, dalla Stamperia delle Muse.
  2. Pensieri di varia filosofia ec., III, 115. Vedi anche IV, 95.