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314 ciceruacchio e don pirlone

Un manipolo di giovani, quasi tutti studenti, si avvia pel Corso; diviene man mano coorte; presso piazza di Venezia è divenuto legione.

E allora una deputazione si reca nell’appartamento dell’ambasciatore Lutzow ad annunciargli che il popolo vuole atterrati gli stemmi dell’aquila bicipite: egli protesta essere questo atto illegale e allora un veronese gli domanda se erano legali i massacri di Milano. Intanto la deputazione assicura che gli appartamenti dell’ambasciatore saranno rispettati. E allora scale congiunte ad altre scale sono appoggiate alle mura esterne del palazzo; un operaio lombardo - si chiamava Sandriani - dalla folta barba vi sale e scuote e percuote con un’ascia la catena: altri operai salgono ad aiutare il primo: ad ogni colpo la folla grida: legge stataria! alla fine lo scudo austriaco piomba, con gran fracasso e si frange in molti pezzi, fra gli applausi frenetici della folla, la quale calpesta e sminuzza lo stemma: e ciascuno ne vuole un frammento.

Al posto ove prima sorgeva lo stemma è infissa una bandiera tricolore. Migliaia di colpi di fucile vengono sparati per allegrezza. Un giovane, che alcuni affermano di nazione tedesca ed altri designano determinatamente per Francesco Dall'Ongaro, scrive col gesso sopra una tavoletta di legno: «Palazzo della Dieta italiana»; e quella scritta è sovrapposta alla marmorea esistente sul palazzo di Venezia e su cui era scolpito: «proprietà dell’impero austriaco». Gli altri stemmi consimili, esistenti in Roma, subiscono la stessa fine e sono trascinati per le vie dal popolo festante1.


  1. B. Grandoni, op. cit., pag. 153; C. Rusconi, Memorie aneddotica cit, cap. IV, pag. 32 e seg.; G. Spada, op. cit, vol. II, cap. VII; L. Mickiewicz, op. cit, tom. I, cap. I, § 6°; M. Minghetti, op. cit.. vol. I, appendice, pag. 391; tutti cinque testimoni oculari. Quasi tutti gli altri storici e fra essi mi piace di notare il Balbo, il Costa de Beauregard, l’Oriani e il Nisco, narrano, e quasi tutti allo stesso modo, i fatti suddescritti. Il Balleydier - che non era in Roma a quel tempo - infiora il suo racconto di una quantità di piccole bugie da lui, non storico, ma romanziere, inventate (op. cit., cap. V, pag. 63); e il D’Arlincourt - il quale era lontano da Roma a quei giorni esso pure - rincara la dose parlando «di busti e di mobili infranti, di devastazione degli appartamenti dell’ambasciatore, di fuochi di fila fatti contro le pitture e le statile del palazzo imperiale ...». Sciocche e insulse invenzioni, menzogne spudorate, completamente smentite dalle narrazioni stesse degli altri scrittori papalini, e specialmente da quelle dello Spada e del Balan, e dal giornale cattolico il Labaro del 29 marzo, n. 14.