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mini fossero ben persuasi che col Papa e coi preti non era più possibili procedere d’accordo. Quel gruppo, che sarebbe stato probabilmente, capitanato dal Galletti, se egli non fosse stato ministro, aveva due irrequieti, rumorosi, ma energici e operosissimi alfieri, il Canino e lo Sterbini, e ad esso aderivano, dal più al meno, l’Armellini, il Campello, il Torre, il Sacripante, il Martini, il Mariani, il Caporioni, il Manzoni (Giacomo), e, pù tardi, dopo le elezioni suppletive, ad esso si accosterebbero il Borgia, il Fasci, il Rusconi e Gherardi Silvestro.

Questo partito, meno dell’altro numeroso, era più dell’altro attivo ed intraprendente, e nutriva grande stima e grande simpatia pel Mamiani.

Fra gli uni e gli altri stavano, aderenti con le loro simpatie al Ministero Mamiani, lo Zanolini, lo Sturbinetti, il Berti-Plchat, il Lunati, il Sereni, il Galeotti, il Potenziani, il Gigli, il Simonetti - e presto giungerebbe a collegarsi ad essi un valoroso giovine bolognese, uscito dalle elezioni suppletive, Rodolfo Audinot, nudrito di buoni studii e di nobili sentimenti dotato

    fece seguire da questo severo commento, anzi da questo fiero monito, pubblicato nel più grosso carattere stampatello che il giornale avesse disponibile nella propria tipografia: « È desiderabile che il signor Mazzini nel suo nuovo gioviale voglia mettere in cima di tutti i pensieri quello della nostra indipendenza la quale solo può derivare dal felice esito della presente guerra, senza entrare in discussioni e progetti di forme governative, per imbrogliare e disviare le menti dallo scopo principale. Allorchè potremo dire l’Italia è libera dallo straniero - al signor Mazzini si darà facoltà di accampare i suoi piani di governo. Per ora abbia la bontà di aspettare, come aspettiamo tutti, e in luogo della penna prenda la spada: ora il primo servigio che esige la patria si è la guerra dell’indipendenza: con le ciarle non si fa guerra». E il giornale dello Sterbini, il Contemporaneo, nel suo n. 51 dell’anno II, in data 15 aprile, in un articolo intitolato «Comitati di guerra» così scriveva: «Non esitiamo a dirlo: è nemico del suo paese, e traditore della patria colui che in questi momenti solenni devia dagli animi dei suoi fratelli dal santo pensiero della guerra per occuparli delle future forme di reggimento, per crescere quel partito che deve far trionfare la sua idea dominante, facendo nascere in tal guisa diffidenze e sospetti, e rallentando l’ardore di chi dalla vittoria non spera altro che la conquista della pace e della unità italiana.
          «I Comitati non abbiano riguardo alcuno: scuoprano essi i tradimenti alla grande causa italiana da qualunque parte vengano, sotto qualunque manto si nascondano! e tradimento noi chiamiamo a ragione i tentativi di crearsi un partito nella rovina di chi pensa in altro modo, e di riaccendere le antiche gare municipali, e le basse invidie, e gli adii, e le calunnie, usando tutte quelle arti di cui si servono gli uomini, i quali a dispetto dei tempi e dell’opinione generale vogliono che ad ogni costo trionfi il loro progetto».