Pagina:Collenuccio, Pandolfo – Operette morali, Poesie latine e volgari, 1929 – BEIC 1788337.djvu/183

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Ruben.   Per questo tuo parlar non è ancor sciolta

la mia ragione, o padre, io ti confesso,
che pazienza sia per forza tolta;
     e in questo caso noi siamo qui adesso,
che per necessitá forza è che pigli
la pazienza a consolar te stesso.
Iacob.   La pazienza io l’ho senza consigli,
perché patisco: ma non voluntaria,
perché morte ha ’l mio figlio ne li artigli;
     e pur, poi che a portarla è necessaria,
si stia la pazienza in compagnia
col pianto insieme, ché non gli è contraria.
Simeone.   Come dice Rubén, io laudaria
che pigliasti conforto in questo affanno,
lassando in tutto la malinconia.
     Poi che le cose umane cosí vanno,
e riparo non gli è, giá non si vòle
col continuo dolersi accrescer danno.
Iacob.   Simeon, questo è pur quel che mi dòle,
e questo è quel che è causa al mio lamento,
che riparo non c’è, se morte il tòle:
     ché ’l morir è un commune detrimento,
ma non potere aver quel che mi è tolto,
questa è la causa che mi dá tormento.
Levi.   Con reverenza, padre, sempre ascolto
le tue parole, ma dirò ben che
del tuo lamento mi stupisco molto.
     Tu hai tanti figlioli intorno a te,
quanti noi siamo, e che per un ti voglie
tanto dolerti, non par bono a me.
Iacob.   O Levi, il mio dolor giá a te non toglie,
né a li altri, grazia o debito paterno:
questo argumento dal tuo cor discioglie.
     Questa legge è ordinata giá ab eterno,
che son gradi d’amore, e il dispensarli
a quello sta che è capo nel governo.
     P. Collenuccio, Opere - n. 12