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filotimo 59


se tu sapessi quanta ignoranza io qualche volta copra, tu diresti (com’io) che’1 seria meglio ch’io fussi calzetto che berretta; perché Tesser stato in studio non è quello che faccia dotto e savio, ma è l’avere studiato e ben assai. E però, si come io non posso far dotto l’ignorante, cosí né il brutto bello né il pusillanime terribile posso fare.

Testa. Troppo mi pare che tu dichi il vero. Ma questo negare non si può, che secondo che Tomo adorna il capo, cosí è estimato; come vedemo ne le pitture di quelli omini morti, che sono per constituzione de’ viventi fatte dappo’ la morte di loro: che quando si vedeno dipinti con la diadema in capo, sono tenuti beati nel cielo. E vedemo ancora che le corone e le mitrie fanno li capi, ove son poste, degni di venerazione quasi divina tra li omini.

Berretta. Non ti dico io che in te non è parte niuna di quelle cose che tu dici avere dentro? Quanti di questi da le diademe hai tu veduti, che piú di vent’anni sono stati dipinti nel muro, né mai però fecerno miracoli! E quanti portano corona, che meglio seria che di aglio o di cepolle se la facessino! E quanti son quelli che portano mitria, e nel summo loco coperta di gemme, che se bene fussino li loro meriti pesati, degni piuttosto seriano (si come a’ damnati per loro eccessi si usa) di una mitria di carta, a vituperosa imagine dipinta! Adunque tu credi che io possa racconciare e ricoprire li mancamenti de l’animo, si come io posso il calvizio e la tigna nascondere?

Testa. Tu potresti dire tanto, che io mi chiamaria vinta in questa parte; ma questo è però vero, che io faccio come li altri e me ne vado con la piú parte.

Berretta. Tu mi confermi ancor piú quello ch’io t’ho detto, che né ragione né intelletto né iudizio in te ritieni, andandone col vulgo, il quale di ogni veritá pessimo interprete fu sempre iudicato. Ma questa è la minore iniuria che mi fai; maggior cagione di querela mi danno molti altri tuoi modi.

Testa. Finalmente che ti faccio io? A me pare che tu