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quando al fioco chiarore del lumino da notte, vide affacciata al soffitto della sua camera la minacciosa ghigna del terribile capo-masnada.

― Che cosa volete da me, maestro Golasecca? ― domandò Moccolino, che dallo spavento non aveva più fiato in corpo.

― Che cosa voglio?... Voglio prenderti per un ciuffo dei capelli e scagliarti lontano mille miglia.

― Deh! non lo fate!... Abbiate pietà di me.

― Non meriti pietȧ.

― Abbiate pietà almeno del mio bambino. Povero Guiduccio! Se rimanesse solo in questa casa, me lo mangerebbero i lupi.

― No, no.... io non voglio esser mangiato dai lupi. ― disse fra il sonno il figlioletto dell’oste, che dormiva nella stessa camera del babbo, in un lettino a parte.

Alle parole di quel bambino, Golasecca mutò fisonomia: e preso un tono di voce un po’ più umano, disse all’oste:

― Su da bravo! Salta subito il letto e preparami da cena. ―

Moccolino ubbidì alla prima: ma era tanta la paura e la confusione che aveva addosso, che non sapeva nemmeno lui come fare a vestirsi. Credè di aver preso le calze, e invece si ostinava a infilare i piedi nel berretto da notte. Accortosi dell’errore, si messe le scarpe, e sopra alle scarpe infilò le calze. Poi infilò la giacchetta, e sulla giacchetta la camicia, e sulla camicia la sottoveste, finchè trovandosi in mano i calzoni e non rammentandosi più a che cosa servivano, li ripiegò perbene e li chiuse dentro l’armadio.