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Pagina:Colonna - Rime, 1760.djvu/128

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XX.
Perchè dolce più assai era fra l’erba
     Sotto l’ombre dormir queto e sicuro,
     Che ne’ dorati letti, e di superba
     Porpora ornati: e forse più ogn’oscuro
     Pensier discaccia, ed ogni doglia acerba,
     Sentir col cor tranquillo, allegro, e puro
     Nell’apparir del Sol mugghiar gli armenti,
     Che l’armonia de’ più soavi accenti.
XXI.
Beato dunque, se beato lice
     Chiamar, mentre che vive, uomo mortale;
     E se vivendo si può dir felice,
     Parmi esser quel che vive in vita tale;
     Ma esser più desia, qual la Fenice,
     E cerca di mortal farsi immortale:
     Anzi quella, che l’uom eterno serba
     Dolce nel fine, e nel principio acerba.
XXII.
La virtù dico, che volando al Cielo
     Cinta di bella e inestinguibil luce,
     Se ben vestita è del corporeo velo,
     Con le fort’ali sue porta e conduce
     Chi l’ama, e segue: nè di Marte il zelo
     Teme giammai, che questo invitto Duce
     Spregiato il tempo, e suoi infiniti danni
     Fa viver tal, che morto è già mill’anni.
XXIII.
Di così bel desio l’anima accende
     Questa felice e gloriosa scorta,
     Che alle cose celesti spesso ascende,
     E l’intelletto nostro spesso porta,
     Tal che del Cielo, e di Natura intende
     Gli alti segreti: onde poi fatta accorta,
     Quanto ogn’altro piacer men bello sia,
     Sol segue quella, e tutti gli altri oblia.