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SONETTO CLXXII


Sovente un caro figlio il sommo Duce
   Lascia avolger fra noi qui d’ombra in ombra
   Perché più chiaro allor, quand’Ei le sgombra,
   Vada l’occhio immortai di luce in luce;
Ma poi che, Sua mercé, Seco il conduce
   Ove peso terren più non l’ingombra,
   Passando il vel che ’l cinge e che lo adombra
   Col raggio bel sin dentro al cor traluce.
Onde ei, visto il sentier sinistro e torto,
   Al destro il pie’ rivolge, e non consuma
   Se stesso e ’l tempo in laberinto vano,
Ma sempre fiso al Sol, che arde ed alluma,
   Con l’aura eterna vola alto lontano
   Da perigliosi scogli al fido porto.


SONETTO CLXXIII


Par che voli talor l’alma, rivolta
   Tutta al raggio immortai, si ch’ombra e luce
   Passa, con quanto qui fra noi riluce,
   Nel vero obietto suo chiusa e raccolta,
Ma non sì nuda ancor che spesso involta
   Non sia fra imagin varie che conduce
   Seco dal mondo, se ben scorta e duce
   Gli è Quel che la fa andar leggiera e sciolta.
Brev’ora advien ch’ardendo, umile e pura,
   Entri nel Sol divino, ond’Ei consumi
   Le nebbie e l’ombre che le van d’intorno;
Poco vive là su, ma son quei lumi
   Sì chiari che riporta arra sicura
   Di viver sempre in quell’eterno giorno.