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SONETTO VI


O che tranquillo mar, che placid’ onde
   Solcava un tempo in bel spalmata barca,
   Di bei favori, e d’ util merci carca,
   L’ aer sereno avea, l’ aure seconde.
Il Ciel, ch’ or suoi benigni lumi asconde,
   Dava luce di nebbia e d’ ombra scarca;
   Non dee creder alcun, che sicur varca,
   Mentre al principio il fin non corrisponde.
L’ avversa stella mia, l’ empia fortuna
   Scoperser poi l’ irate inique fronti,
   Dal cui furor cruda procella insorge.
Venti, pioggia, saette il Cielo aduna,
   Mostri d’ intorno a divorarmi pronti;
   Ma l’ alma ancor sua tramontana scorge.


SONETTO VII


CHi può troncar quel laccio, che m’ avvinse,
   Se ragion diè lo stame, Amor l’ avvolse;
   Nè sdegno, o Morte l’ allentò, nè sciolse;
   La fede l’ annodò, tempo lo strinse?
In prima il cor, poi l’ alma intorno cinse,
   Chi più conobbe il ben, più se ne tolse;
   L’ indissolubil nodo in pregio volse,
   Per esser vinta da chi tutto vinse.
Convenne al ricco bel legame eterno
   Spiegar questa mortal caduca spoglia
   Per annodarmi in più leggiadro modo.
Onde tanto legò lo spirto interno,
   Ch’ a cangiar vita io fermerò la voglia
   Soave in terra, e ’n Ciel felice nodo.