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SONETTO XLII


Si; large vi fu il ciel, che ’l tempo avaro,
   Bench’ ognor più s’ affretti, men divora
   L’ opre vostre, Signor, ma d’ ora in ora
   Scorge cagion di farvi eterno e raro.
Posto il contrario suo col bianco a paro
   Si manifestan più gli estremi all’ ora;
   Così i fatti d’ altrui men belli ancora
   Fanno il vostro valor sempre più chiaro.
Si scorge un error quasi in ogni effetto
   D’ ingegno, o forza in altri, che raccende
   Nei saggi petti ognor la vostra gloria.
Per proprio onor ciascun alto intelletto
   Farà dell’ opre vostre eterna istoria;
   Perchè chi men le loda, men l’ intende.


SONETTO XLIII


Parmi, che ’l Sol non porga il lume usato,
   Nè che lo dia sì chiaro a sua sorella,
   Nè veggio almo pianeta, o vaga stella
   Rotar lieto i be’ rai nel cerchio ornato.
Non veggio cor più di valore armato:
   Fuggito è il vero onor, la gloria bella,
   Nascosa è la virtù giunta con ella,
   Nè vive in arbor fronda, o fiore in prato:
Veggio torbide l’ acque, e l’ aer nero,
   Non scalda il fuoco, nè rinfresca il vento,
   Tutti an smarrito la lor propria cura.
D’ allor che ’l mio bel Sol fu in terra spento:
   O che confuso è l’ ordin di Natura,
   O il duol agli occhi miei nasconde il vero.