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SONETTO LXXII


Ahi quanto fu al mio Sol contrario il Fato,
   Che con l’ alta virtù dei raggi suoi,
   Pria non v’ accese, che mill’ anni e poi
   Voi sareste più chiaro, ei più lodato?
Il nome suo col vostro stile ornato,
   Che dà scorno agli antichi, invidia a noi,
   A mal grado del tempo avreste voi
   Dal secondo morir sempre guardato.
Potess’ io almen mandar nel vostro petto
   L’ ardor, ch’ io sento, e voi nel mio l’ ingegno,
   Per far la rima a quel gran merto eguale.
Che così temo ’l Ciel non prenda a sdegno
   Voi, perchè preso avete altro soggetto;
   Me, ch’ ardisco parlar d’ un lume tale.


SONETTO LXXIII


Quanto invidio al pensier, ch’ al Ciel invio,
   L’ ali sì preste, ch’ a lui non contende,
   Lo spazio, il giunger tosto al Sol, ch’ accende
   Fra le vane speranze il voler mio.
Potess’ io almen tuffar nel cieco oblio
   La memoria del bene, ond’ ora prende
   Tal forza ’l duol, che ’l cor non sempre intende,
   Quanto lunge dal ver vola il desio.
Che pur qui va cercando i chiari raggi
   Negli occhi amati, nè ragion l’ appaga,
   Che le dimostra più lucenti il Cielo.
Ma ’l primo oggetto segue, e quei viaggi
   Son troppo erti al mio piè, finchè la vaga
   Aura vital sostien quest’ uman velo.