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SONETTO LXXXVIII


VOi, che miraste in terra il mio bel Sole,
   Deh fate agli altri che nol vider fede,
   Che, come il suo valor ogn’ altro eccede,
   Così son le mie pene al mondo sole.
Quanto ei valse, e non men l’ alma si duole,
   Chi la sua vita vide, or la mia vede;
   Chi quella gloria, or questa pena crede,
   Che ’l Ciel senz’ altr’ eguali ambe le vuole.
Ond’ ei m’ appar sovente in sonno, e dice:
   Nasce un miracol novo dal tuo danno,
   Che spesso in Ciel mi può far men felice.
Più novo è assai, dich’ io, ch’ al breve inganno
   D’ un nostro sguardo, che è nel sonno, lice,
   Tenermi viva in sì mortal affanno.


SONETTO LXXXIX


Poichè tornata sei, anima bella,
   Alla porta celeste, onde partisti,
   Quanto lasciati hai noi miseri e tristi,
   Tanto lieta hai nel Ciel fatt’ ogni stella.
Non piango già il tuo ben, ma l’ empia e fella
   Sorte del mondo, il qual, mentre vivesti,
   Col dotto stil così onorato festi,
   Che non fu ugual in questa etade, o in quella.
Rimaso è senza te povero, e privo
   D’ ogni sua gloria, e per disdegno e doglia
   Sommerso ha quasi Roma il Tebro altiero.
Sol per te ha fatto quel, che per lo Divo
   Cesar già fece, e a par di quella spoglia
   Pianto ha la tua beato almo sincero.