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SONETTO XCII


Qual uom, cui folta nebbia al viso ha spente
   L’ orme del chiaro suo noto viaggio;
   Ma dal piè avvezzo, e dal giudizio saggio,
   Quasi cieco condur dritto si sente;
Tal io già alfin della mia voglia ardente,
   Vidi asconder da Morte il fido raggio,
   Scorta del viver mio; ma pur sempre aggio
   Dell’ alto esempio suo chiara la mente.
Atra notte di fuor, dentro bel giorno
   Scorgo, onde l’ alma desiosa e lieta
   Sempre si volge al mio celeste segno.
Così senza girar gli occhi d’ intorno,
   Quanto posso leggera, all’ alta meta,
   Chi mi scuopre il mio Sol, correr m’ ingegno.


SONETTO XCIII


Di quella cara tua serbata fronde,
   Che a rari antichi, Apollo, ampia corona
   Donasti, allor che all’ almo tuo Elicona
   Gustar l’ acque più chiare e più profonde.
Or che ’l gran Giovio nell’ estreme sponde
   Del patrio Oceano all’ Indio mar risuona
   Con le luci d’ onor, che si ragiona,
   Le prime glorie altrui girli seconde;
Orna di propria man la fronte altiera,
   Che la sua dotta Musa oggi è sol quella,
   Che rende il secol nostro adorno e chiaro.
Questo al Sol vivo mio sua luce intiera
   Serberà sempre, e quel soggetto raro
   Arà sì degna istoria, eterna e bella.