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[v. 67-69] | c o m m e n t o | 211 |
che in quel luogo si puniscono l’iracundi, e che sotto l’acqua si puniscono li accidiosi: e pone quello che diceano sotto l’acqua, poi continua suo cammino e dice, che girarono quel cerchio ch’era come uno pozzo brutto, andando tra la ripa sesta e il mezzo, guardando coloro che ingozzano del loto. E così pervennono ad una torre all’ultimo; e qui finisce il canto. Ora è da vedere il testo con l’allegoria, ovvero moralità.
C. VII — v. 67-69. In questo ternario l’autore pone come fece a Virgilio una domanda della fortuna, della quale di sopra avea fatto menzione, dicendo così: Maestro, diss’io; cioè Dante, lui; cioè a Virgilio, or mi dì anche; cioè ancora: Questa Fortuna, di che tu mi tocche; cioè che tu mi ricordi nel tuo ragionamento, Che è; cioè che cosa è, che i ben del mondo à sì tra branche; cioè à sì in sua podestà? Qui è da notare che Dante che è posto in figura della sensualità, domanda Virgilio che significa la ragione, che cosa è fortuna, per certificare li uomini grossi, che credono che la fortuna sia una Dia: imperò che i poeti figurano che sia una donna cieca, che volge una ruota che va quattro stati, e questa donna à due volti; l’ uno ridente, e l’altro piangente, col ciuffetto, e capelluta dinanzi dal volto ridente, e calva dall’ altro; et uno de’ quattro stati è di chi è in felicità, e quello si pone nella sommità della ruota; l'altro di chi è in avversità, e quello si nota’nell’infima parte; lo terzo è di quelli che sale alle felicità, nella parte della ruota ascendente; lo quarto è del descendente alla miseria, e questo si pone nella parte della ruota che discende. Ma li uomini semplici non intendono la figura de’ poeti: imperò che per questa figura li poeti intendono li effetti della fortuna, benché Democrito filosofo del quale fu detto di sopra, cap. iv, tenesse che il mondo si reggesse a caso et a fortuna, non conoscendo che la providenzia è; e se pur lo conobbe non seppe vedere come stava insieme con la libertà dell’arbitrio, e però negò la providenzia tenere l’arbitrio, e pose caso e fortuna. Ma alquanti savi conobbono bene ciò che era fortuna, e dissono che fortuna non è se non temporale disposizione delle cose provedute da Dio, o vero mutabilità delle cose temporali, secondo che procede dalla volontà divina. E Seneca nelle Tragedie dice: Nemo confidat nimium secundis, Nemo desperet meliora lapsis; Miscet haec illis, prohibetque Clotho stare fortunam: rotat omne fatum. Nemo tam divos habuit faventes, Crastinum ut possit sibi polliceri. Res Deus nostras celeri citatas Turbine versat. E Boezio nel secondo libro della Filosofica Consolazione ove induce a parlare la fortuna dice: Ilaec nostra vis est. Hunc continuum ludum ludimus. Rotam volubili orbe versamus. Infima sammis, summa infimis mutare gaudemus. Ascende si placet, sed ea lege, ne uti cum ludicri mei ratio poscat, descendere