Pagina:Commedia - Inferno (Buti).djvu/39

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b i o g r a f i a xxxv

egli abbia o no sempre colpito nel segno ricusiamo di erigerci a giudici; ma non dubitiamo d’asserire com’egli ne ebbe ad altrui appianata la via, che avrebbeli menati a buon fine, qualora avessero saputo entrarvi. E valga il vero. Là dove tocca del veltro e delle rimanenti bestie, mentovate nel primo canto, qual mai tra’ vecchi e recenti chiosatori seppe meglio approssimarsi al concetto Dantesco, referentesi all’Imperio e alla Chiesa, ed ai tre vizi della lussuria, superbia ed avarizia? Ma in tale proposito non vogliamo più dilungarci, affin di non sembrare che pretendiamo al nostro avviso aggiustino fede i filologi nostrali e stranieri, i quali meglio da sè vedranno, se l’amore alla nostra publicazione abbia per ventura potuto ingannarci. Un altro però è il fatto che amiamo venga osservato; com’egli, in tanta operosità e di magistrato e di professore, punto non trascurasse il governo della propria famiglia, mostrando anche in ciò esemplarità di cittadino; e a tale riuscirono tutte le sue cure in educare i figliuoli che Bartolommeo diventò giudice e notaio; Antonio, notaio degli anziani; e Giovanni, oltre avere sostenuti in Pisa diversi publici incarichi, professò eziandio legge in quell’Università medesima, a cui il padre aveva accresciuta la rinomanza. Questa vita cotanto onorata del nostro Francesco gli avrà per fortuna giovato a fargli godere un’età più che ottogenaria: chè nato nel 1324, morì nel 25 luglio del 1406. Il suo corpo fu seppellito nel primo chiostro de’ Francescani in Pisa, sotto il terzo arco, a sinistra di chi vi entra, ed ivi anch’oggi si vede questa lapida: