Pagina:Commedia - Inferno (Buti).djvu/531

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a lei: Ò io grazie Grandi appo te? Non solamente grandi; ma ancora l’ài maravigliose, e però dice: Anzi maravigliose. E quinci sian le nostre viste sazie; dice Virgilio, cioè questo basti a vedere la seconda bolgia. Et è qui da sapere che Taida fu una meretrice appo li Greci, la quale seppe usare l’adulazioni e le lusinghe; e però finge 1 Isopo di quindi la favola del giovane e di lei, lodando il giovane che si seppe guardare dalle lusinghe. E comunemente per li savi uomini ammaestrati di poesia si muove quivi uno dubbio, riprendendo l’autore che di questa materia à parlato si bruttamente; e massimamente inducendo a parlare Virgilio, al quale non si convenia questa 2 incomodità di sermone: imperò che Orazio dice nella Poesia 3: Intererit multum divusne loquatur an heros ec.; onde pare che abbia peccato contra la poesia. E se altri volesse scusarlo ch’elli à mescolata la satira con la comedia, e la satira usa sì fatti vocaboli, puossi ostare ancora secondo che dice Orazio nel detto libro ov’elli dice: Sylvis deducti caveant me judice Fauni, Ne velut innati triviis ac paene forenses Aut nimium teneris juvenentur versibus umquam, Aut immunda crepent ignominiosaque dicta; Offenduntur enim ec. E però si dè considerare che qui è una poca di macchia, e sostenere si può, come dice Orazio nel detto libro: Verum, ubi plura nitent in carmine, non ego paucis Offendar maculis, quas aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura. E così si scusa questo passo e quell’altro, che è nel xxviii canto ove dice: Che merda fa di quel che si trangugia; ma più lievemente, perchè quivi parla pur l’autore. E qui si finisce il canto xviii.

  1. C. M. finge di quinde Lisopo la sua faula del giovano
  2. C. M. questa immondezza
  3. C. M. nella Poetria:

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