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INFERNO. — Canto I. Verso 122 a 136

     Anima fia a ciò più di me degna:
     Con lei ti lascerò nel mio partire;
Chè quello imperador che lassù regna,
     125Perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
     Non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
     Quivi è la sua città e l’alto seggio:
     Oh felice colui cu’ ivi elegge!
130E io a lui: Poeta, io ti richeggio
     Per quello Dio che tu non conoscesti,
     Acciò ch’io fugga questo male e peggio,
Che tu mi meni là dov’or dicesti,
     Sì ch’io veggia la porta di san Pietro
     135E color cui tu fai cotanto mesti.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.




tiva, vae a paradiso. Or questo si vede chiaro. Mo che la vita eterna è si eccellente cosa, la benignitae del creatore è tanta, che per ragione umana non può essere estimata, ma conviene per pietosa voglia del Signore esserne revelata o per profeti o per santi. Sichè questo è quello che proffera Virgilio a Dante io ti mostrerò quello che per ragione umana si può vedere; l’altro ti mostrerà una anima santa alla quale ha voluto lo Signore revelarlo. E intende questa anima Beatrice, la quale per allegoria s’intende la scienzia di teologìa, e risponde, quando dice Che quello imperadore, a una tanta questione che si potrebbe dire, ma perchè non è cosi revelato a te, Vergilio, la beatitudine di Paradiso come a Beatrice? Dice perchè non fu di sua legge, cioè che non fu cristiano; sichè la città di Paradiso non può per lui essere veduta. In tutte parti narra la grandezza di Dio e la beatitudine che segue ad essere cittadino di cotale cittade.1


  1. Infine di ogni Canto porrò i risultati de’ riscontri fatti dall’ OTTIMO COMMENTO al LANA per tagliare una disputazione oziosa, e disingannare chi credette antichissimo e ottimo l’OTTIMO. L’ OTTIMO vero, si vedrà, è il LANA; ma le prove non cominciano che al Canto IV. L’ OTTIMO è uno zibaldone com’ è zibaldone il Cod. Laur XL, 7 che il Witte reputò di Ser Graziolo. Anch’ esso vide il Lana; e ne citerò qualche tratto dove mi gioverà. Il testo di Dante ivi è più antico , ma non è lo stesso che quello a cui valsero le note o commenti, non di rado ripetuti come presi da varii per lo stesso verso. Quelle diverse chiose sono da molto più tardo del 1351, in cui le donne fiorentine furono da pulpiti ammonite di sconvenevole nudità; nè sono sempre dotte, nè sincere.