Pagina:Commedia - Paradiso (Imola).djvu/302

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paradiso

Ditemi dell’ ovil di san Giovanni, Quanto era allora, e chi eran le genti Tra esso degne di più alti scanni? 27 Come si avviva allo spirar dei venti Carbone in fiamma, così vidi io quella Luce risplendere ai miei blandimenti: 30 E come agli occhi miei si fe’pii.ì bella, Così con voce più dolce e soave, Ma non con questa moderna favella, 33 Dissemi: da quel dì che fu detto Ave, Al parto in che mia madre, ch’è or santa, S’alleviò di me ond’ era grave, 36 Al suo Leon cinquecento cinquanta E trenta fiate venne questo foco A rinfiammarsi sotto la sua pianta. 39 Cli antichi miei e io nacqui nel loco, Dove si trova pria I’ ultimo sesto Da quel che corre il vostro annual gioco. Basti dei miei maggiori udirne questo: Chi ci si furo, e onde venner quivi, Più è tacer, che ragionare, onesto. Tutti color che a quel tempo eran ivi Da potere arme tra Marte e il Battista, Erano il quinto di quei che son vivi: 48 Ma la cittadinanza, ch’ è or mista Di Campi e di Certaldo e di Figghine, Pura vedeasi nell’ ultimo artista. ‘31 O quanto fora meglio esser vicine Quelle genti ch’ io dico, e al Galluzzo, E a Trespiano aver vostro confine, Che averle dentro e sostener lo puzzo