Pagina:Commedia - Paradiso (Imola).djvu/353

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CA%TO XIX. 343 Solvetemi, spirando, il gran digiuno, Che lungamente m’ha tenuto in fame, Non trovandoli in terra cibo alcuno. 27 Ben so io che, se in Cielo altro reame La divina giustizia fa suo specchio, IL vostro non l’apprende con velame. Sapete come attento io in’ apparecchio Ad ascoltar; sapete quale è quello Dubbio, che m’è digiun cotanto vecchio. 53 Quasi falcon che uscendo del cappello, Move la testa, e con l’ale s’applaude, Voglia mostrando, e facendosi bello; 56 Vidi io farsi quel segno, che di lande Della divina grazia era contesto, Con canti, quai si sa chi lassù gaude. 59 Poi cominciò: colui, che volse il sesto Allo estremo del mondo, e dentro a esso Distinse tanto occulto e manifesto, 42 Non potèo suo valor sì fare impresso In tutto l’Universo, che il suo Verbo Non rimanesse in infinito eccesso. E ciò fa certo, che il primo superbo, Che fu la somma d’ogni creatura, Per non aspettar lume, cadde acerbo. 48 E quinci appar ch’ ogni mjnor natura È corto ricettacolo a quel bene, Che non ha fine, e sè in sè misura. Dunque nostra veduta, che conviene Essere alcun de’raggi della Mente, Di che tutte le cose son ripiene, Non può di sua natura esser possente