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Alessandro — Mi viene in mente l’inizio di Slevin, patto criminale in cui Bruce Willis racconta che Charlie Chaplin partecipò a un concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò terzo.
Questa non è solo una storia assurda e divertente, mi fa riflettere sul rapporto con la realtà: un uomo che finge di essere se stesso e lo fa peggio di altre due persone. Credo che ci sia qualcosa in comune tra questo aneddoto e il nostro rapporto con la fotografia.
Barbara — Il mio flash, un commento di Werner Herzog: «Dobbiamo pensare alla cascata, Il diamante bianco che nasconde, qualcosa che va al di là della nostra immaginazione, ma è tuttavia palpabile... È la casa di un milione e mezzo di rondini che vivono dietro la cascata»; che immagine! Ambigua forse quanto le nostre foto.
A — (Ride) In effetti iniziamo sempre dalla fotografia per fare un lavoro. Che sia un video, un disegno o altro. Poi a volte scopriamo qualcosa di ambiguo o potente in uno scatto e con il tempo prende la sua autonomia. E allora da uno studio o un appunto salta fuori un’opera. A volte ci mettiamo tre anni a fare una serie di fotografie come nel caso di Greenland (ride) per arrivare a una certa temperatura d’immagine.
Un’immagine che magari faccia pensare a cosa ci sia fuori dall’inquadratura più che a ciò che contiene.
B — Alcune nostre foto sono semplicemente appunti, appunti quasi effimeri. Se ci pensi le cose effimere però possono durare a lungo. Se qualcuno se ne prende cura possono sopravvivere, anche se in uno stato di dimenticanza: è divertente! Ma è anche un po’ giocare con un ‘limite’...
A — Tra due settimane circa inizia il mondiale di calcio in Sudafrica.
B — Credo che il limite e l’ambiguità non siano statisticamente

determinati, a volte le nostre foto sono ‘racconti incompleti’... capita di confrontarci con soggetti che non hanno bisogno di una restituzione, perché è il contesto nel quale si trovano che ci fa sentire spettatori. Il concetto del tempo per noi è ‘sospeso’...

A — Credo che tutti i nostri racconti, che siano fotografici o videografici debbano assolutamente rimanere incompleti: è solo nel momento in cui un lavoro non ci appartiene più completamente che mi sento soddisfatto. Se uno immagina cose per i fatti suoi forse - credo, spero - un’immagine funziona.
Il tempo sospeso è un’altra componente necessaria
affinché un soggetto ci possa anche solo interessare. Lavoriamo spesso in luoghi al limite dell’abbandono o della dimenticanza; mentre sulla contemporaneità ho sempre avuto e sempre avrò una certa dislessia, non riuscirò mai a comprendere precisamente di cosa si tratta. Mi è più semplice parlare di tecnica in questa chiave. Analogica o digitale? Su questo ho già un’idea più chiara. Almeno per quanto concerne il nostro modo di lavorare. Ho più simpatia per il digitale semplicemente perché spesso il lavoro di ricerca e stratificazione delle idee è così lungo per noi che poi quando iniziamo a vedere una forma, una soluzione, una possibilità di lavoro, allora tutto deve improvvisamente scattare e velocizzarsi. Deve materializzarsi. E col digitale questo è più semplice.
Comunque credo che Lippi sarà in grado di guadagnarsi una semifinale.
B — Concretizzare un’idea con un apparecchio analogico o digitale? Mi viene da pensare a Vittorino Andreoli quando parla di follia e normalità: «Non è facile definire il matto e chiamare così qualcuno non offende, perché l’essere definiti non normali viene sentito come una marca del proprio essere non banali e quindi come un complimento. La gente non vuole più essere normale, la normalità è quasi offensiva. Questo ci dice molto sulle mutazioni culturali», credo valga anche per il progresso tecnologico... Se pensi alle fotografie Lourdes, Cover #2 o Castles concedono una doppia possibilità: prendere coscienza di un determinato soggetto, ma nel contempo rimandarlo ad altro, oppure la possibilità di limitarsi a contemplarlo senza realmente acquisirne coscienza, ambivalenza e ambiguità sono nostre costanti. Mi viene in mente la Capoeira, la lotta-danza afro-brasiliana ideata dagli schiavi africani in Brasile, una pratica che insegna a muoversi con intuito e attenzione, uno strumento di attacco e difesa, un rituale che educa all’osservazione.
A — ‘Ambivalente e ambiguo’ come John Cage che partecipa e vince il telequiz condotto da Mike Bongiorno Lascia o raddoppia? in qualità di esperto micologo. Ai saluti finali il conduttore chiede a Cage se rimarrà in Italia o tornerà negli Usa, il compositore risponde che la sua musica rimarrà, e Bongiorno controbatte: «Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui».
B — (Ride) Ok.