Pagina:Cuoco, Vincenzo – Platone in Italia, Vol. I, 1928 – BEIC 1793340.djvu/13

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al lettore 7


paesi del mondo che i giovani scrivan sempre piú dei vecchi, e talora anche per i vecchi. Ma, sebbene quegli che scrive sia per l’ordinario Cleobolo, son sempre però Archita, Platone, Timeo, Ponzio quei che o ragionano o decidono; e Cleobolo appare sempre un giovinetto vago di istruirsi, che interroga i suoi maestri e fa tesoro delle loro dottrine. Forse avrá fatto conserva anche dei nomi delle belle, delle quali si mostra tanto amico quanto dei filosofi; ed un viaggiatore elegante, quale egli era, non dovea trascurarle. Ma, con gravissimo danno della letteratura, il tempo, che ha rispettata una parte de’ suoi registri politici e letterari, non ha conservati i suoi souvenirs galanti.

Volendo però giudicare dell’opera intera, pare che taluni tratti non sieno né di Archita, né di Platone, ne di Cleobolo. né di verun altro nel libro nominato. Questo mi ha dato sul principio molto a pensare. Ma ho poi finalmente riflettuto che, se mai quest’opera fosse la collezione del commercio epistolare che ebbe Platone nel tempo che fu in Italia, qual meraviglia sarebbe che un uomo qual era Platone avesse un commercio piú esteso di quello che noi sappiamo? Chi ci assicura che quest’opera sia giunta a noi intera? Prima che s’inventasse la stampa, i libri eran molti rari e le copie costavan molto. Aulo Gellio ci parla di un tal suo amico, il quale pagò venti soldi d’oro per aver il solo secondo libro dell’Eneide1. Molti, i quali non poteano spender di piú, si facean copiare di un’opera quei soli tratti che servivano al loro uso; e, se taluno si è contentato di aver separato e diviso da tutti gli altri il secondo libro dell’Eneide, la quale pure era un’opera, per l’unitá dell’azione e la grandezza dell’interesse, non divisibile; qual meraviglia che un altro si abbia fatto copiar soli pochi tratti di un’opera che comprendeva oggetti tanto diversi tra loro? Quando si tratta di cose degli antichi, nulla ci deve far meraviglia, tra perché gli antichi spesso son piú simili a’ moderni, tra perché spesso son piú dissimili di quello che il volgo crede.

  1. Aulo Gellio, Noctes Atticae, II, 3.