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XXVI

LA PROVVIDENZIALITÀ DELLA STORIA

A creder mio, uno de’ piú bei libri di Plutarco è quello che ci ha lasciato sulla fortuna de’ romani e di Alessandro.

Ingiusto è il giudizio che dá sui primi, attribuendo tutta la loro grandezza alla fortuna. Il caso, dice Montesquieu, non dura otto secoli. Quel giudizio del buon Plutarco è figlio del suo amor per la patria e di quella invidia contro coloro i quali son troppo grandi, e della quale non ci libera nessuna filosofia. Il caldo della passione, che egli provava per i greci, traspare dall’istessa grandiloquenza degna dell’epopea, ed a lui per certo non naturale, colla quale rivendica dalla fortuna e dá tutta alla virtú la gloria del figlio di Filippo.

Ma togliamo di mezzo il figlio di Filippo: non è questa la causa di tutto il genere umano? Il massimo favore della fortuna non segue costantemente quell’uomo e quella nazione che ha piú virtú? Qualunque sia la credenza interna di un uomo su quelle cose che impossibile è il conoscere, pericolosissimo il disputarne, è certo però che esiste un ordine universale, dipendente da una forza superiore che noi potremmo pur chiamare con diversi nomi, ma che dobbiamo tutti convenire in dir che sia unica, perché una è la vita che può avere il mondo, e che tenda sempre alla perfezione, perché non vi è forza la quale per sua natura possa tendere alla propria distruzione. Chi dunque vi vieta di credere che tutte le azioni di tutti gli uomini sieno ordinate per la virtú, nella quale consiste la perfezione del mondo morale? Idea sublime, che era l’idea di Pittagora, di Socrate, di Platone, e che, dimostrata, potrebbe

divenire l’idea la piú consolante e la piú utile al genere umano. L’idea della perfettibilitá del genere umano, sostenuta da molti e da molti altri a vicenda combattuta, è troppo importante