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il maestro di mio padre 209

bianchi e turchini, in un altro un tavolino con una piccola libreria; quattro seggiole e una vecchia carta geografica inchiodata a una parete: si sentiva un buon odore di mele.

Sedemmo tutti e tre. Mio padre e il maestro si guardarono per qualche momento, in silenzio.

— Bottini! — esclamò poi il maestro, fissando gli occhi sul pavimento a mattoni, dove il sole faceva uno scacchiere. — Oh! mi ricordo bene. La sua signora madre era una così buona signora! Lei il primo anno, è stato per un pezzo nel primo banco a sinistra vicino alla finestra. Guardi un po’ se mi ricordo. Vedo ancora la sua testa ricciuta. — Poi stette un po’ pensando. — Era un ragazzo vivo, eh? molto. Il secondo anno è stato malato di crup. Mi ricordo quando lo riportarono alla scuola, dimagrato, ravvolto in uno scialle. Son passati quarant’anni, non è vero? È stato buono tanto a ricordarsi del suo povero maestro. E ne vennero degli altri, sa, gli anni addietro, a trovarmi qui, dei miei antichi scolari: un colonnello, dei sacerdoti, vari signori. — Domandò a mio padre qual’era la sua professione. Poi disse: — Mi rallegro, mi rallegro di cuore. La ringrazio. Ora poi era un pezzo che non vedevo più nessuno. E ho ben paura che lei sia l’ultimo, caro signore.

— Che dice mai! — esclamò mio padre. — Lei sta bene, è ancora vegeto. Non deve dir questo.

— Eh no, — rispose il maestro, — vede questo tremito? — e mostrò le mani. — Questo è un cattivo segno. Mi prese tre anni fa, quando facevo ancora scuola. Da principio non ci badai; credevo che sarebbe passato. Ma invece restò, e andò crescendo. Venne un giorno che non potei più scrivere. Ah! quel giorno, quella prima volta che feci uno sgor-