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290 maggio

l’istruzione della mutina, dica un po’. Io l’ho lasciata che era come un povero animaletto, povera creatura. Io ci credo poco, già, a questi collegi. Ha imparato a fare i segni? Mia moglie mi scriveva bene: - Impara a parlare, fa progressi. - Ma, dicevo io, che cosa vale che impari a parlare lei se io i segni non li so fare? Come faremo a intenderci, povera piccina? Quello è buono per capirsi fra loro, un disgraziato con l’altro. Come va, dunque? Come va?

Mio padre sorrise, e rispose: - Non vi dico nulla; vedrete voi; andate, andate; non le rubate un minuto di più.

Uscimmo; l’istituto è vicino. Strada facendo, a grandi passi, il giardiniere mi parlava, rattristandosi. - Ah! la mia povera Gigia! Nascere con quella disgrazia! Dire che non mi son mai sentito chiamar padre da lei, che lei non s’è mai sentita chiamar figliuola da me, che mai non ha detto né inteso una parola al mondo! E grazia che s’è trovato un signore caritatevole che ha fatto le spese dell’istituto. Ma tanto.... prima degli otto anni non c’è potuta andare. Son tre anni che non è in casa. Va per gli undici, adesso. È cresciuta, mi dica un po’, è cresciuta? È di buon umore?

- Ora vedrete, ora vedrete, - gli risposi affrettando il passo.

- Ma dov’è quest’istituto? - domandò. - Mia moglie ce l’accompagnò ch’ero già partito. Mi pare che debba essere da queste parti.

Eravamo appunto arrivati. Entrammo subito nel parlatorio. Ci venne incontro un custode. - Sono il padre di Gigia Voggi, - disse il giardiniere; - la mia figliuola subito subito. - Sono in ricrea-