Pagina:Cuore infermo.djvu/239

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Parte quinta 239

margherite nelle mani. Non mi parlate, salutatemi solamente. Addio.»

Il primo moto di Beatrice fu di alzare gli occhi all’orologio. Era mezzodì: mancavano tre ore. Poi li riabbassò sul biglietto. Dapprima aveva letto senza osservare la calligrafia. Ora la guardava, trasognata, come se un’apparizione sorprendente le si fosse offerta allo sguardo.

— È Amalia — disse fra sè, tremando di dolore.

Ma non poteva crederci ancora. Molte calligrafie si rassomigliano fra loro. Sono avvenuti casi singolarissimi. Non bisognava lasciarsi acciecare da un sospetto irragionevole. Ecco, era d’uopo che fosse calma e prudente. Sciolse il primo pacchetto di lettere, ne aprì tre o quattro.

— È Amalia — le ripetette l’evidenza. Si poteva ingannare ancora. Lesse la prima, la seconda, la terza, la quarta, aprendole con una grande lentezza, scorrendole attentamente, ripiegandole e rimettendole al loro posto:

— È Amalia, è Amalia — diceva la voce assidua e monotona.

Ma volle leggere tutto. Una per una, le passarono sotto l’occhio quelle lettere senza firma, lunghe, prolisse, brevi, concise, tutte artificiali. Beatrice conobbe dalla prima all’ultima parola quella corrispondenza che era rimasta senza risposta. Tutta la bizzarria sentimentale di quei vaniloquii le fu nota.

— È Amalia, è Amalia, è Amalia — parlava la voce nel suo cervello.

Oh! sì, sì, era proprio lei. Da ogni parola si rivelava quel temperamento fanciullescamente femmineo, quella inclinazione al romanticismo nebuloso, quel bisogno di mettere un interesse in una vita superficiale ed oziosa. Era proprio lei, la donna ammorbata di un falso senti-