La sera, quando rientrava in camera sua, dopo il teatro, dopo il circolo, o semplicemente dopo una serata passata nel suo salottino a leggicchiare, a sognare, a pensare, ella licenziava presto presto Giovannina. Rimaneva in veste bianca, in pianelle, nella camera illuminata fiocamente dalla lampada di notte. Raramente Marcello ritornava a casa con lei. Quasi sempre era ancora fuori a mezzanotte. In ogni caso ella trascinava una poltroncina presso la porta di comunicazione, sedeva e restava ad origliare. Nel silenzio ogni piccolo rumore giungeva a lei. Alle volte, dopo un’ora, udiva rientrare Marcello. Lo udiva quando, stanco e disfatto della sua cattiva giornata, si abbandonava sopra una seggiola. Ella s’immaginava che egli dovesse essere molto pallido, molto ammalato. In quel momento s’irrigidiva in uno sforzo di volontà, per non aprire la porta, per non andare da lui. Ma Marcello si alzava, andava alla scrivania, e si metteva a scrivere senza posa. Con l’orecchio teso, concentrata nell’attenzione, Beatrice si chiedeva che cosa egli scrivesse così a lungo, a quale persona cara dirigesse le sue parole. Talvolta egli rimaneva a leggere per molto tempo; ma ella doveva dolorosamente confessare a se medesima, che i fogli del libro erano voltati ad intervalli molto lunghi, troppo lunghi perchè il lettore fosse attento al suo libro. Talvolta, invece di leggere o di scrivere, Marcello passeggiava su e giù nella sua camera, a passi regolari, ma senza molto rumore; ogni volta che egli veniva verso la porta, Beatrice era presa da uno spavento, quasi egli avesse potuto aprirla e sorprender lei in ascolto. Dimenticava che la chiave era dalla propria parte. Ella lo seguiva in quel va e vieni, sussultando come se