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la gola. E la corsa non mi pareva abbastanza celere ma ogni sosta mi era un sollievo quasi vile. E, quando entravo nell’ombra dei monti, chiudevo gli occhi come per non uscirne più.


Mi s’è rotto il polso. La mano m’è caduta come una cosa disseccata.

Ho sete. Spasimo dalla sete. Dal pollice del piede, laggiù, tanto distante, alle fauci di metallo che non s’inumidiscono mai, tutto il corpo è sitibondo. E invano domando un sorso d’acqua.

La lacrimazione dell’occhio e il sudore delle tempie mi colano fin sul labbro. E lambisco le gocciole salse. E mi sembra di lambirle con la bocca di mia madre, con quella bocca deformata che pesa in me, che soffre in me contraffatto.

Ditemi se c’è un’agonia più crudele di questa.