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Era vero, in Sicilia aveva desiderato di morire. Adesso no, benchè l’avvenire le comparisse tanto spaventoso. Come mai? Pareva impossibile. Vi era forse nelle oscurità dell’anima sua molta più radice di speranza ch’ella stessa non credesse; v’era fors’anche un vago timore di giungere mal preparata a quel mistero di là dalla tomba, di cui lei e Cortis avevano idee tanto diverse. Quale spasimo per esso s’ella morisse senza fede!

Avrebbe voluto pensarci, a questa fede, e non poteva. La tormentosa aspettazione dell’arrivo di suo zio l’aveva, ad ogni suonar d’ore da Villascura, riassalita più forte, cresceva ogni momento. Tentò continuar la lettura e dovette smettere subito. Era stanca e non poteva star ferma. Le pesava star lì, o star con sua madre ch’era già rientrata. E mancavano ancora quasi tre ore alle sei e mezzo.

Stava sulla soglia del gabinetto quando uno strepito di zampe e di ruote suonò sotto il porticato. Diede addietro per istinto. Aveva paura, adesso, che fosse lo zio. Come mai, così presto? Quanto avrebbe dato perchè non fosse lui, perchè tardasse almeno un’altra ora! Non aveva ancora pensato se dovesse domandargli di suo marito o aspettare una parola sua; non aveva ancora pensato a comporre il proprio contegno sì da riuscirgli impenetrabile, perchè con lui, che sapeva tante cose e aveva forse qualche segreto sospetto, non sarebbe troppo facile il dissimulare. Ecco ch’era lui, proprio lui; ecco i saluti clamorosi di Cortis, la voce del senator Clenezzi. Sua madre ordinava a un servo di chiamare la contessina. Ella si fece coraggio e si avviò verso il portico.