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nel poema dell’ombra e della vita 367


Cortis spinse via con un atto sdegnoso il foglio. La fantasia gli faceva dire al barone: «Pagati i debiti? Le ne resta uno verso mio padre e lo pagherà a me.» Ed ecco che gli stava di fronte con la spada in pugno, furioso. Afferrò la lettera, se la cacciò in tasca, a precipizio; poi sedette alla scrivania, v’incrociò su le braccia e appoggiò alle braccia la fronte. La rialzò subito, avventò in alto le pugna strette, le scosse rabbiosamente. Quindi si levò in piedi, passeggiò su e giù per lo studio, abbandonandosi a questo pensiero che Elena lo amava oramai così forte da non poter avere un’altra volontà che la sua. Tutta tutta era in sua balìa; egli poteva dirle «ti prendo l’anima e la vita, ti voglio qui.» Cacciò ancora la mano alla lettera per veder meglio se il barone parlasse o no di promesse fattegli da Elena, se vi fosse o no un’allusione alla possibilità ch’ella mancasse al convegno.

Gli venne tratta, per errore, la lettera de’ suoi amici di Roma. Dio, com’era possibile pensare a Roma in questo momento? La fece in due pezzi, trasse l’altra, la rilesse. Non c’era niente.

Ora bisognava andare a casa Carrè, vederla, non lasciarla sola in quei momenti!

Nell’aprir l’uscio dello studio ebbe la fulminea visione della partenza d’Elena, della propria solitudine. Rimase lì con la mano alla chiave. Finalmente, udendo camminare e parlare di fuori, uscì.

V’erano il notaio Picuti e altri del paese venuti per un atto di scusa a proposito del famoso indirizzo ch’era stato sottoscritto da parecchi senza leggerlo, per compiacere altrui.

Questa deputazione annunciò in pari tempo a Cortis