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tutta risonante di strepito d’armi, tutta animata da passioni e da affetti gagliardi e profondi.

Ma il gran poeta che veniva dal popolo e intendeva farsene l’interprete celebrando contro gli eroi di Maometto gli eroi nazionali, non ricorse al vecchio e tarlato codice, stato rinchiuso nelle arche reali, al Libro dei Re ufficiale, si direbbe ora, redatto per comodo del monarca imperante e dei legittimisti suoi. Così Dante, in un momento geniale per lui e per noi, ripudiò l’idioma latino scrivendo la Commedia e assunse il volgare, poichè scriveva per la grand’anima del popolo, non per i grammatici, non per i curiali, non per i teologi. Firdusi, lasciato in disparte quel racconto che non era più genuino, si volse alla viva sorgiva della tradizione popolare, e quella fece sua e quella eternò, vestendola del suo verso che, armonioso e snello, seconda mirabilmente la foga di chi appassionatamente narra di gran cose.

Quattro umili personaggi del Khorassân, di religione zoroastriana, dei cui nomi alquanto strambi, anche perchè incerti, facciam grazia a chi ci ascolta, avevano compilato un modesto libro, forse in persiano, forse in pehlevi, comprendente tutto quanto il racconto epico. Modesto il libro, ma animato da una forte ammirazione e da un rimpianto profondo per un passato glorioso; oscuri e forse inetti i compilatori, ma caldi amanti della patria e delle sue glorie. Il genio di Firdusi, animato dagli stessi affetti, si appropriò tutta questa materia greggia, e da cotesta materia greggia, ravvivata da lui, scaturì il Libro dei Re, come dalle informi e povere leggende intorno alla vita futura, ravvivate d’un tratto dal genio di Dante, scaturì il poema sacro.

Fu quello un momento felice. Perchè, come al tempo di Dante, quasi per provvidenzial volere, s’incontrarono, bellamente disposandosi, i sentimenti più nobili che animavano quel secolo, l’amoroso, il patrio, il religioso, così al tempo di Firdusi cooperarono e militarono congiunti in bell’armonia l’amor di patria, la coscienza che ogni nazione civile ha della propria superiorità sopra ogni altra barbara e incolta, l’insito e innato sentimento d’un’arte che i conquistatori venuti d’Arabia non ebbero mai e non poteron mai vantare, cioè di quella del celebrar col canto epico gli eroi della stirpe. Passato quel momento, quei sentimenti si sviarono per correr ciascuno la sua via, nè s’incontraron mai più. Per cotesto, restò unico e solitario mo-