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il figlio del reggimento. 113


VI.

In un angolo del campo v’erano due piccole case, abitate da una buona famigliola di contadini, nelle quali si era stabilito il quartier generale delle cucine di tutti gli ufficiali dei quattro battaglioni. Figuratevi che confusione! V’erano da sei a otto soldati, tra cuochi e guatteri, per ogni cucina; un continuo litigarsi dei primi che non sapevano far niente e volevano insegnarsi l’un l’altro a far tutto; un continuo bisticciarsi degli altri che rivaleggiavano per diventar cuochi; un continuo va e vieni di ordinanze a prendere il desinare per gli ufficiali agli avamposti, e contadini, e venditori, e ragazzaglia dei dintorni: una babilonia.

In una nuda stanzaccia di quelle case fu ricoverato Carluccio quando lo colse la febbre. La quale da molti giorni infieriva nel reggimento a tal segno che, ogni giorno, n’eran colti da tre a cinque a sette soldati per ogni compagnia. Carluccio l’ebbe tanto forte che si temeva ne morisse. Il medico del reggimento lo curò con una sollecitudine che non si poteva maggiore; tutti noi gli femmo un’assistenza più che paterna.

Fra le tende e la porta della sua stanza era un incessante andirivieni di soldati. Entravano in punta di piedi, s’avvicinavano adagio adagio al suo letticciuolo, lo guardavano negli occhi ch’ei moveva intorno gravi e socchiusi o teneva lungamente immobili sul volto delle persone senza dar segno di conoscerle; lo chiamavano per nome, gli posavano una mano sulla fronte, si facevano l’un l’altro certi cenni per dirsi il proprio parere sullo stato del piccolo infermo; poi si allontanavano

tacitamente, si soffermavano sul limitare della porta per


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