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132 il figlio del reggimento.


Fra verso e verso si sentiva il singhiozzare stanco e lamentoso di quel poveretto.

Lo spettacolo di Venezia, in quel punto, era incantevole.

— Zitti! — disse improvvisamente un di noi. — Tutti ammutolirono e tesero l’orecchio: il vento ci portava or sì or no un suono fioco di trombe.

— È la fanfara dei croati di Malghera! — esclamò il padovano.

Non dimenticherò mai lo strano senso di malinconia che provai in quel momento.


È inutile ch’io ripeta i pianti, le disperazioni e le preghiere di Carluccio; basti il dire che più d’una volta la pietà ch’ei ci fece fu tanta da metterci in procinto di mandar tutto a monte. Ma si trattava della sua salute e tenemmo fermo. L’idea però d’una buona famiglia che lo avrebbe protetto, e messo alla scuola e mandato ogni giorno alla passeggiata coi fratelli piccini dell’ufficiale, e che, a un bisogno, se lo sarebbe preso in casa come un figliuolo, e lo considerava già fin d’allora come tale; questa idea, e più l’avergli letto una lettera affettuosissima della madre del suo ospite in cui erano fette mille promesse e mille assicurazioni che Carluccio sarebbe stato il più caro oggetto dei suoi affetti e delle sue cure; tutto ciò mitigò d’assai il suo dolore e fece sì che, dopo aver tentato e ritentato più volte di smuoverci dalla nostra risoluzione, egli si rassegnasse alla dura necessità, sospirando: — Ebbene.... allora.... tornerò a casa! —

Dopo qualche giorno levammo il campo a ci mettemmo in cammino alla volta di Padova. Vi arrivammo un bel mattino allo spuntar del sole. Si entrò per il Portello e si passò per quasi tutte quelle medesime strade che avevamo percorse la prima volta. Giunti ad un certo