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IL COSCRITTO.


Era di domenica verso le cinque di sera e faceva un tempo bellissimo. La caserma era presso che vuota. Quasi tutti i soldati erano andati a spasso per la città; i pochi rimasti, parte nei dormentorii a finir di vestirsi, parte giù nel cortile ad aspettare, stavano per andarsene anch’essi, quei di sotto gridando di tratto in tratto: — Fa presto, — e quei di sopra rispondendo: — Un momento, — chè forse stentavano a mettersi il cinturino da tanto che se l’erano stretto per far la vita sottile. Anche i coscritti, arrivati al reggimento due giorni prima, parte erano usciti, parte andavano uscendo, a sei, a otto, a dieci assieme, seri, impalati, coi berretti per traverso, i cappotti affagottati, le mani aperte e stecchite in un par di guantoni bianchi che parean manopole da scherma; e i soldati di guardia, seduti sur una panca alla porta della caserma, li andavano motteggiando man mano che passavano, malgrado che il sergente brontolasse di tratto in tratto: — Lasciateli in pace, poveri giovani. — L’ufficiale di picchetto, sdraiato sul letto in una camera al primo piano, leggicchiava un giornale.

Nell’angolo più appartato del cortile v’era un coscritto solo solo, seduto sullo scalino d’una porta, co’ gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani. Seguiva uno per uno collo sguardo i suoi compagni che