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una marcia notturna. 155

avevano accesi i soldati colla paglia delle tende per levarsi di dosso l’umidità contratta, dormendo, dal terreno. Tutto il resto, buio.

Ad un tratto echeggia un gran rumor di tamburi; poi silenzio. Le compagnie si volgon successivamente di fianco, le prime file si muovono, il reggimento parte. Passa, sopra un angusto ponticello, il fosso che separa dal campo la via, e là le file si accalcano, e si osserva un affollarsi di lumi che vanno ora avanti e ora indietro a seconda degli ondeggiamenti della folla, e partono due a due, e s’allungano per i due lati della via diritta in una doppia fila, e a poco a poco si confondono lontano in due strisce luminose ondulanti e serpeggianti come due gran redini di fuoco agitate dalla coda della colonna.

E si cammina; e per un po’ di tempo si ode un chiacchierio sommesso che muor poi a poco a poco, a poco a poco in un silenzio profondo, interrotto da qualche rauca vociaccia degli uffiziali che brontolano: — In ordine — ogni volta che, gettando l’occhio sonnolento sui soldati vicini alla lanterna, vi scorgono un po’ di allargamento o un po’ di serra serra. Tutti gli altri tacciono. Non s’ode che lo strascicato rumore delle pedate e il monotono tintinnìo delle scatole di latta, che segnano la cadenza del passo.

Col diffondersi del silenzio si comincia a diffondere il sonno, il tormentoso e terribile compagno delle marce notturne. Pover a chi n’è colto! Non v’ha riposo anteriore, nè colloquio di amico, nè liquor vigoroso, nè sforzo di volontà che lo vinca; bisogna cedere e subirlo.

Guardate là quell’uffiziale in mezzo alla via. Egli lotta da più d’un’ora col sonno; ma ormai le palpebre gli si chiudono irresistibilmente, tremole, gravi; e le ginocchia gli si piegan sotto; e la testa sollevata a stento gli ricade pesantemente sul petto; e le braccia gli penzo-