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290 l’esercito italiano

d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi, a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.

Ogni giorno il popolo trovava una pietra, un cencio, un oggetto qualsiasi, che credeva intriso di veleno. Si recava in folla dal sindaco portando l’oggetto avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a sperimentarlo, e voleva che i resultati dell’esperimento fossero com’ei riteneva che dovessero essere, o dava in minaccio e in violenze. In alcuni paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran parte dei cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come avvelenatori ed uccisi, s’eran trovati costretti a barricarsi in casa con qualche provvisione di cibo, vivendo così nascosti e rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i sospetti, si assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne’ giorni in cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce, gli accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi trascinati, lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i funzionari municipali, impauriti dall’esasperazione della folla, non ardivano tentar di distorla dai suoi propositi di sangue ed esortarla a risparmiare quegli infelici, e rispondevano, come fecero nel villaggio di San Nicola,