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312 l’esercito italiano

mio reggimento; non ho altro; ma questo poco lo do ben di cuore pei poveri del mio paese.»


Le opere di beneficenza sono sempre stimabili e lodabili, anche se il primo degli impulsi che ci movono a farle, sia il desiderio della gratitudine e dell’affetto dei beneficati. Ma quando da quest’opere non si raccoglie neanco il frutto della gratitudine, chè anzi, chi ci dovrebbe amare e benedire, ricambia coll’odio la nostra carità, e nell’offerta sospetta l’insidia, e nel benefizio il delitto; e ciò malgrado si persiste coraggiosamente a far del bene, amando, perdonando, senz’altro movente che la pietà, senz’altro conforto che la coscienza, allora s’ha diritto ben più che alla stima e alla lode che alle virtù comuni si suol dare. Voglio dire delle opere generose dei soldati in que’ paesi dove si credeva ch’essi spargessero il veleno per mandato del governo, e il popolo li odiava e li malediva. E questi paesi furono i più.

Da ultimo, poi che s’era visto che anche i soldati morivano, che non tutti coloro ch’essi portavano agli ospedali ne rimanevano avvelenati, che anzi i superstiti non finivan mai di lodare la sollecitudine e l’affetto con cui erano stati assistiti e curati, l’insensata superstizione era sparita. Ma che i soldati avvelenassero il popolo, in sulle prime, era una credenza universale, un convincimento profondo, un fatto su cui non sarebbe stato lecito ad alcuno di muovere un dubbio. Non v’era chi, occorrendo, non n’avrebbe fatto giuramento con sincerissima fede. Ognuno teneva tenacemente per fermo, pur non avendo visto mai nulla, che ci fossero mille indizi, mille prove irrefragabili di quella orrenda congiura. E una di queste prove, una delle più efficaci, il volgo la vedeva in quella stessa sollecitudine dei soldati, in quel loro volersi ficcar dappertutto, e di