Pagina:De Amicis - La vita militare.djvu/327

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durante il colèra del 1867. 319

per le stesse cause minacciata. Ogni giorno dovevano accorrere a disarmare e ad ammansire una folla cieca di furore e assetata di sangue, e a strappare dalle sue mani le vittime, quasi sempre già malconcie dalle percosse e sanguinose, spesso semivive, qualche volta già trucidate. Bisognava, quando non si poteva più far altro, lottare per impadronirsi dei cadaveri, perchè non fossero mutilati e trascinati per le vie, o dati in preda alle bestie o alle fiamme. Bisognava che si cacciassero uno ad uno in mezzo a una folla di gente armata, che stringendosi e ondeggiando li portava di qua e di là, separandoli, pigliandoli in modo che al bisogno non avrebbero neanco potuto far uso delle armi, e l’uno potea essere passato da una coltellata senza che gli altri nemmeno se n’accorgessero. Eppure di quella turba forsennata bisognava fidarsene, e persuaderla, pregarla, supplicarla, chè ogni minaccia sarebbe riuscita vana, quando pure, inasprendo le ire, non avesse provocato una mischia e fatto versar nuovo sangue; il che, pur troppo, non di rado accadeva. Ciò nulla meno, molte vite furono salve, molto sangue fu risparmiato, e s’impedirono molti atti di ferocia brutale, specialmente nei paesi in cui non eran sospetti di veneficio i soldati, o nei giorni in cui non l’erano più.

Varrà un esempio per tutti.

A Bocca di Falco, piccolo villaggio vicino a Palermo, c’era il colèra. Correvano per le bocche di tutti i nomi di coloro sui quali il terribile sospetto era caduto, e s’aspettava una qualunque occasione per immolarli. Fra questi era un povero merciaiuolo che ogni due o tre giorni attraversava il paese per recarsi a Palermo. Aveva i capelli lunghi, un vestire strano, un cipiglio fiero, modi aspri e poche parole; ce n’era d’avanzo per crederlo uno spargitore di veleno. Un