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352 una medaglia.

cendo la bocca e sporgendo il labbro di sotto. E poi sempre lo sguardo torvo e la faccia scura.

Una sera, in piazza d’armi, mentre si facevano gli esercizi, un maggiore rimproverò ad alta voce il capitano; questi girò un rapido sguardo sulle faccie dei suoi soldati; quella tal faccia rideva. — Canaglia! urlò egli allora, cieco di rabbia, e fattosi dinanzi al soldato, gli pose i pugni sul viso: il soldato impallidì. Pochi minuti dopo si volse freddamente al suo vicino e gli disse: — Un giorno o l’altro (e aggiunse qualche parola sotto voce).... o io non sono abbruzzese. — Appena rientrato in quartiere e giunto al suo letto, sbattè il gamellino e lo zaino contro il muro. Il capitano sopraggiunse inaspettato e vide. — Sergente, me lo cacci in prigione! — gridò, e disparve. Il soldato addentò, ruggendo, le lenzuola e si percosse la testa coi pugni. Tre o quattro compagni gli si slanciarono addosso, l’afferrarono, lo trattennero: — Che hai? Che fai? Diventi matto?


V’è un tratto della valle del Tronto, il tratto più angusto, in cui le giogaie s’elevano dalle due parti ad una grande altezza e dirompendosi in valloncelli, in dirupi e in burroni scuri e profondi, protendono le falde sassose fin quasi sulla sponda del fiume. La valle, in quel tratto, offre un aspetto cupo e malinconico. Tra l’acque e le falde estreme, il terreno è tutto ghiaia e ciottoloni e macigni enormi, precipitati giù dalle sommità de’ gioghi; e dalle falde in su è un laberinto di tane e di precipizi e di boschi folti e di greppi senza sentiero. Qualche viottolo s’inerpica su per l’erta a gomiti e a giravolte, e si perde in mezzo ai massi e alle macchie; qualche abituro appare qua e là mezzo nascosto fra le sporgenze dei balzi; qualche tratto di terra è piano e