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had-el-garbìa | 109 |
mondo che d’un cencio di camicia e d’un paio di ciabatte; venuti a piedi da Fez a Tangeri, per tornare a piedi da Tangeri a Fez; e poi, chi sa! seguitare qualche altra carovana da Fez a Marocco, e tirare innanzi così tutta la vita, senz’altro compenso che di non morire di fame e di poter riposare le ossa sotto una tenda! Pensavo, guardandoli, alla «piramide della esistenza» del Goethe. V’era, fra gli altri, un ragazzo mulatto di tredici o quattordici anni, bello e sveltissimo, il quale fissava sempre in viso ora a me ora ad altri dell’ambasciata due grandi occhi neri pieni di curiosità e di simpatia, che diceano e domandavano confusamente mille cose. Era un trovatello, frutto chi sa di che strani amori, che cominciava coll’ambasciata italiana la corsa faticosa, nella quale forse non doveva arrestarsi che per cadere nella fossa. Un altro, un vecchio tutt’ossa e pelle, correva col capo basso, cogli occhi chiusi, coi pugni stretti, colla rassegnazione disperata d’un dannato. Altri parlavano e ridevano ansando. A un tratto, uno spiccò la corsa, passò dinnanzi a tutti e disparve. Dieci minuti dopo lo trovammo seduto all’ombra d’un fico. Aveva fatto un mezzo miglio per guadagnare sulla carovana cinque minuti di cammino e goderseli all’ombra.
Intanto eravamo arrivati ai piedi d’una piccola