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che volta dei propri figli, che stavano colla madre a Mechinez, sua città natale. — Son tre mesi, — disse un giorno sospirando, — che non li vedo! — Forse voleva dire: — che non la vedo; — ma disse li per pudore.

Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione della muna, fra cui v’era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo mezzogiorno; nel qual tempo l’accampamento rimaneva immerso in un profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava. I pittori mettevano mano ai pennelli, il medico riceveva i malati, uno andava a bagnarsi, un altro a tirare al bersaglio, chi a caccia, chi a passeggio, chi a visitare un amico sotto la tenda, chi ad assistere alle cariche della scorta, chi a vedere il cuoco alle prese coll’Affrica, chi a visitare i duar vicini, e così ognuno, a tavola, aveva qualcosa da raccontare, e la conversazione scoppiettava come un fuoco d’artifizio.

Quella sera, al tramonto del sole, andai col comandante a vedere i soldati della scorta che facevano le cariche in un vasto prato vicino all’accampamento.