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Pagina:De Amicis - Marocco.djvu/251

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zeguta 241


presero un po’ l’Ussi e un altro po’ il Biseo; ma di quello che abbia prodotto in loro, non mi ricordo. Era una pasta molle, di colore violetto e di sapore di pomata. Per una mezz’ora circa, dalla minestra alle frutta, non sentii nulla, e già canzonavo il dottore per le sue paure. Ma lui mi rispondeva: — Aspetti, aspetti — e sorrideva. I sintomi dell’ebbrezza, infatti, si manifestarono alle frutta. Fu da principio una viva ilarità e una rapidissima parlantina. Poi cominciai a ridere di tutto quello che sentivo dire e che dicevo io stesso; ogni parola mia e d’altri mi faceva l’effetto d’un’arguzia finissima; ridevo dei servi, degli sguardi dei miei commensali, della mia seggiola squilibrata, delle figurine dipinte sui tondi, della forma di certe bottiglie, del colore del cacio che mangiavo. All’improvviso m’accorsi che non avevo più la testa a segno e mi diedi a pensare a qualche cosa di serio per contenermi. Pensai al ragazzo che volevan bastonare la mattina. Povero ragazzo! M’inteneriva. Avrei voluto condurlo in Italia, farlo educare, fargli abbracciare una carriera. L’amavo come un figlio. E anche il caid Abù-ben-Gileli, povero vecchio. Il caid Abù-ben-Gileli l’amavo come un padre. E i soldati della scorta? Eran tutti buoni ragazzi, pronti a difenderci, a rischiar la vita per noi. Io li amavo come fratelli. Amavo pure li Al-