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folla bianca e incappucciata che ci divora cogli occhi. Son sempre gli stessi soldati, per buona parte ragazzi, col fez, la giacchetta rossa e le gambe nude. Alcuni hanno i calzoncini turchini, altri bianchi, altri verdi; molti sono in maniche di camicia; chi tiene il fucile al piede, chi sulla spalla; chi sta avanti, chi sta indietro. Gli ufficiali son vestiti a capriccio, da zuavi, da turcos, da spahì, alla greca, all’albanese, alla turca con divise gallonate e arabescate d’oro e d’argento, con sciabole a scimitarra, spade, pugnali ricurvi, pistoloni, daghe, stivali alla scudiera e stivaletti gialli senza tallone; alcuni color di porpora da capo a piedi, altri tutti bianchi, altri tutti verdi che paiono mascherati da diavoli. Di tratto in tratto si vede fra loro un viso europeo che ci guarda con un’espressione di simpatia e di tristezza. Si vedono fino a dieci bandiere schierate insieme. Al nostro passaggio, squillano le trombe. Qualche braccio di donna s’intromette fra le teste di due soldati e s’agita col pugno chiuso verso di noi in atto di minaccia. Le mura della città par che s’allontanino via via che andiamo innanzi, e le due schiere di soldati si allungano dinanzi a noi come due siepi sterminate di roseti vermigli.

Un’altra folla di cavalieri, più pomposi dei precedenti, ci viene incontro. È il vecchio mi-