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non potendo assidersi la civiltà europea se non sulle rovine di tutto l’edifizio politico e religioso del Profeta, l’ignoranza è la miglior salvaguardia dell’Impero, e la barbarie un elemento necessario di vita. Con quest’aureola storica ci si presentava alla fantasia il giovine Sultano a cui stavamo per comparire dinanzi.

Alle otto della mattina, l’Ambasciatore, il vice-console, il signor Morteo, il Comandante e il Capitano, vestiti delle loro splendide uniformi, erano già radunati nel cortile, in mezzo a una folla di soldati, fra i quali il caid, tutti in pompa magna. Noi soli, i due pittori, il medico ed io, tutti e quattro in giubba, gibus e cravatta bianca, non osavamo uscire dalle stanze, per timore che il nostro bizzarro vestire, forse non mai visto a Fez prima d’allora, facesse ridere il pubblico. — Vada prima lei — no, tocca a lei — no, tocca a loro — ; per un quarto d’ora non si fece altro discorso, l’uno cercando di spinger l’altro fuori della porta. Finalmente, dopo una savia osservazione del dottore, che disse: — L’unione fa la forza — ; uscimmo tutti e quattro insieme, stretti in un gruppo, col capo basso e il cappello sugli occhi. La nostra comparsa nel cortile destò una viva meraviglia fra i soldati, i custodi e i servi del palazzo, alcuni dei quali si nascosero dietro i pilastri per ridere al sicuro. Ma fu ben