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Pagina:De Amicis - Marocco.djvu/343

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fez 333


stanza, colla tazza del caffè in mano, che il dottore od io ci svegliamo, e al primo che dia il menomo segno di vita, gli si precipita addosso e gli caccia la tazza sotto il naso colla furia d’uno che voglia far bere un contravveleno. Un altro bel personaggio è la lavandaia, un donnone col viso coperto, la sottana verde e i calzoncini rossi, che viene a pigliar la nostra biancheria, destinata, ahimè! alle zampate dei mori. È superfluo il dire che non ci stirano nulla: in tutta Fez non esiste un ferro da stirare, e noi ci rimettiamo la roba tale e quale esce di sotto alle zampe dei lavandai. — Forse, — ci fu detto, — ci sarà qualche ferro nel Mellà! — C’è di tutto; il difficile è trovare. C’è, per esempio, una carrozza; ma appartiene all’Imperatore. Si dice che c’è pure un pianoforte; lo si è visto entrare nella città anni sono; ma non si sa bene chi lo possegga. È un divertimento poi il mandar a comprare alle botteghe. Una candela? — Non c’è, — rispondono; — ma ve la facciamo subito. — Un metro di nastro? Sarà fatto per domani sera. — Dei sigari? Abbiamo il tabacco; ve li daremo fra un’ora. — Il viceconsole cerca da qualche giorno un vecchio libro arabo, e tutti i mori interrogati si guardano in viso e dicono: — Un libro? Chi ha dei libri a Fez? N’aveva uno tempo fa, se non c’inganniamo, il tale dei tali; ma è morto e