sogna rientrare in casa e non si può più uscire. Col calar della notte, cessa ogni commercio, ogni movimento, ogni segno di vita; Fez non è più che una vasta necropoli, dove se si sente per caso una voce umana, è l’urlo d’un pazzo o il grido d’un assassinato; e chi volesse andare a zonzo a ogni costo, dovrebbe farsi scortare da una pattuglia coi fucili carichi e da un drappello di falegnami, i quali ogni trecento passi buttassero giù una porta che sbarra la strada. Di giorno poi la città non somministra altra novità che qualche donna trovata morta in mezzo alla via con una pugnalata nel cuore, la partenza d’una piccola carovana, l’arrivo d’un governatore o sotto-governatore di provincia che venne gettato in fondo a un carcere, la bastonatura di qualche pezzo grosso, una festa in onore d’un Santo di cui sentiamo le fucilate dal palazzo, e altre cose simili, annunziate per lo più da Mohammed Ducali o dal Scellal, che sono i nostri due giornali quotidiani ambulanti. E queste notizie, e quello che vedo ogni giorno, e la vita singolarissima che vivo qui, mi danno poi nella notte dei sogni così stranamente intricati di teste recise, di deserti, d’arem, di prigioni, di Fez, di Tumbuctù, di Torino, che la mattina mi sveglio con un caos inesprimibile nella testa, e per qualche momento non raccapezzo più in che mondo mi sia.