Pagina:De Amicis - Marocco.djvu/415

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fez 405


razza di sotto, la camicia le si attaccò alla punta d’un mattone e restò su, lasciando molti segretini all’aria aperta; ed essa, che sapeva d’esser guardata dal palazzo dell’Ambasciata, e non poteva più nè risalire nè scendere, si mise a strillare come una disperata, e tutte le donne della casa accorsero smascellandosi dalle risa. Passa un mulatto gigantesco, pazzo, che tormentato dall’idea fissa che i soldati del Sultano lo cerchino per tagliargli una mano, fugge per le strade come una fiera inseguita, agitando convulsivamente il braccio destro, come se glie l’avessero già mutilato, e mette ululati spaventosi che risuonano da un quartiere all’altro della città. Passano molti e molti altri; ma quello che s’arresta più lungamente, è un nero di cinquant’anni, servo del palazzo, alto poco più e largo poco meno d’un metro, un cor contento, che sorride sempre cacciando tutta la bocca verso l’orecchio destro; la più grottesca, la più spropositata, la più imperiosamente ridicola figura che sia mai comparsa sotto la cappa del cielo; ed ho un bel mordermi le dita, e dirmi che è ignobile il ridere delle deformità umane, e farmi vergogna in mille maniere; — è inutile, — è un riso che vince le mie forze, — ci dev’esser dentro qualche intenzione misteriosa della Provvidenza, — bisogna che scoppi! E Dio mi perdoni: mi venne più volte l’idea di comprarlo per farmene una pipa.