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Pagina:De Amicis - Marocco.djvu/69

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tangeri 59


niti, che non potevano più nè gridare nè reggersi, eran tenuti su per le ascelle dai compagni, e travolti così, come corpi morti, nella folla. La ridda si faceva di mano in mano più scomposta, e il gridìo più assordante. Erano dondolamenti di testa da lussarsi le vertebre del collo e rantoli da spezzarsi la cassa del petto. Da tutti quei corpi grondanti di sudore, veniva su un puzzo nauseabondo come da un serraglio di fiere. Ogni tanto uno di quei visi stravolti si alzava verso il terrazzo e fissava nei miei due occhi stralunati, che mi facevano torcere indietro la testa. Di momento in momento, dentro di me, cangiava l’effetto di quello spettacolo. Ora mi pareva una gran mascherata, ed ero tentato di riderne; ora ci vedevo l’immagine d’una gran baldoria di pazzi, di malati in delirio, di galeotti ubbriachi, di condannati a morte che volessero stordire il proprio terrore, e mi stringevano il cuore; ora non consideravo che la bellezza selvaggia del quadro, e ci provavo la voluttà d’un artista. Ma a poco a poco, il senso intimo di quel rito, s’impose alla mia mente; il sentimento, che quelle smanie traducevano, e che tutti abbiamo provato molte volte, lo spasimo dell’anima umana che si agita sotto l’immensa pressione dell’Infinito, si risvegliò; e senz’accorgermene, accompagnavo quel turbinìo col linguaggio che lo spiegava: — Sì, ti sento,